La contaminazione da PFAS in ambito agroalimentare

 

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Contributi di Ilaria Battisti, Antonio Masi

La contaminazione da sostanze poli- e perfluoroalchiliche (PFAS), causata da un ampio uso di queste sostanze a livello industriale e soprattutto, dall’errata gestione di materiali e scarti venuti a contatto con essi, rappresenta un problema per l’intera popolazione globale. Alte concentrazioni di PFAS sono state rilevate principalmente nelle aree fortemente industrializzate (Italia, Germania, Sud-Est Asiatico, Stati Uniti, per citarne alcune), ma anche in regioni remote, quali il Tibet e l’Antartide. Data la loro elevata stabilità termica e chimica, i PFAS tendono ad accumularsi nell’ambiente e negli organismi viventi, causando problemi fisiologici e metabolici. Questi composti chimici vengono trasportati dall’acqua, per cui è facile immaginare come l’inquinamento di una falda acquifera possa avere conseguenze drammatiche, specialmente in ambito agroalimentare. Gli alimenti derivati da verdure coltivate in suoli inquinati, o da latte, uova e carni provenienti da animali esposti a PFAS, rappresentano inevitabilmente una fonte di contaminazione per l’uomo.

I PFAS tendono ad accumularsi negli organismi in quantità differenti a seconda delle proprietà dettate dalla loro struttura chimica. Per quanto riguarda le piante, le molecole a catena corta (< 8 atomi di carbonio), essendo più idrofiliche, possono viaggiare attraverso l’acqua per lunghe distanze ed accumularsi preferenzialmente nella parte aerea (foglie, frutti), mentre quelle a catena più lunga ( 8 atomi di carbonio), data la loro maggiore idrofobicità, tendono a rimanere confinate a livello radicale. Numerosi studi hanno provato l’accumulo differenziale nei diversi tessuti di svariate piante di interesse agrario (Ghisi et al. 2019). Uno screening preliminare su specie vegetali cresciute spontaneamente in un terreno della zona contaminata nel Vicentino ha rilevato la presenza di alcuni PFAS, quali PFPeA, PFBS, PFOA e PFDA, in piante di tarassaco, radicchio, fragole, loglio e topinambur in quantitativi dell’ordine di una decina di ng/g di sostanza secca. Uno studio sperimentale su piante di pomodoro coltivate nello stesso terreno ed irrigate con acqua contaminata, ha dimostrato come il PFBA sia la sostanza che si accumula maggiormente nei frutti (circa 40 ng/g di sostanza secca), seguito da PFPeA e PFHxA (rispettivamente circa 13 e 2 ng/g di sostanza secca). Nelle foglie invece, il PFOA tende ad accumularsi in grande quantità (maggiore di 50 ng/g di sostanza secca), seguito in misura minore da PFBA, PFBS, PFHxA (Battisti et al., dati non pubblicati). Questi primi dati evidenziano l’importanza di un monitoraggio delle aree soggette a contaminazione da PFAS, in quanto le specie vegetali sono alla base della catena alimentare.

Gli studi condotti in condizioni di crescita controllate (es. idroponica) sono fondamentali non solo per valutare l’accumulo delle sostanze perfluorurate, ma anche per studiarne gli effetti in termini di fisiologia e metabolismo. Rimanendo in ambito agrario, una recente sperimentazione su piante di piante di mais esposte a una miscela di 11 PFAS, ciascuno ad una concentrazione di 100 µg/l, ha evidenziato importanti conseguenze fisiologiche a livello radicale (Ebinezer et al., 2022). In particolare, le radici delle piante esposte a PFAS sono meno sviluppate rispetto ai controlli e il tasso di crescita relativo delle piante trattate è significativamente ridotto. Di particolare rilievo sono le alterazioni osservate nel caso di proteine coinvolte nel metabolismo e nel trasporto degli amminoacidi, così come di proteine implicate nel metabolismo dei carboidrati e dei lipidi. Inoltre, sono emerse differenze nei profili amminoacidico e lipidico delle piante esposte alla contaminazione, a prova della tossicità dei PFAS per gli organismi viventi.

L’accumulo di PFAS avviene in misura diversa a seconda delle specie considerate. Alcune piante arboree si prestano all’accumulo di ingenti quantità di sostanze inquinanti, ed in particolare di PFAS. Da uno studio recentemente pubblicato, in cui è stata testata la capacità di accumulo di diverse piante legnose, è emerso che betulle e salici possono accumulare nelle foglie fino a 30 µg/g di PFPeA e circa 20 µg/g di PFHxA (Huff et al., 2020). Ciò risulta particolarmente interessante in un’ottica di fitorisanamento, poiché attraverso l’utilizzo di piante non destinate all’uso alimentare si potrebbero potenzialmente rimuovere grandi quantità di PFAS dal suolo. Tuttavia, evidenze preliminari suggeriscono che l’accumulo di PFAS possa in qualche modo alterare il trasporto di acqua e sali minerali attraverso i vasi xilematici, causando uno squilibrio del bilancio idrico.

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